Îles

Correspondances et cartes

Traces

De ce qui est laissé et que nous découvrons. Des questions, que répondre, que penser ? Du moins, chercher un peu.

Trieste, la sua storia.

- Posté en Traces par

TRIESTE,

È una delle recenti metropoli commerciali d'Europa e una delle più antiche città dell'Adriatico. Fu fondata 600 anni prima dell'era cristiana da una tribù di Traci che, costretta a fuggire da un nemico potente o guidata da un avventuroso desiderio di migrazione, risalì il Danubio, si insediò nell'Istria e costruì diverse altre città, tra cui Pola.

Pola oggi è solo un piccolo villaggio senza importanza, notevole solo per le sue antichità romane, mentre Trieste fa progressi ogni giorno. Ma quanti anni ha languito, quante lotte disastrose ha sopportato prima di prendere il suo vigoroso slancio, prima di raccogliere l'eredità marittima di Venezia!

Verso il 189 a.C., fu conquistata dai Romani, che vi stabilirono una colonia troppo debole per difenderla. Fu saccheggiata successivamente dai Gepidi, dai Goti, dai Longobardi. Ricostruita una prima volta dalle rovine da Ottaviano Augusto, un'altra volta dai Bizantini, fu incorporata nell'exarcato di Ravenna, conquistata da Carlo Magno, consegnata al duca del Friuli e infine soggiogata dai Veneziani. Nel frattempo, patriarchi di Aquileia, margravi dell'Istria, duchi di Carinzia si contendevano il suo possesso.

Attaccata a turno dai suoi ambiziosi vicini, presa e ripresa da uno e dall'altro, e ogni volta che soccombeva, condannata a pagare da sola i costi della guerra, la sfortunata città, per porre fine a queste fatali rivalità, decise di imporsi un altro padrone: invocò il sostegno dell'Impero germanico e si diede volontariamente a Carlo IV, che la cedette cortesemente a suo fratello, patriarca di Aquileia. I Veneziani la invasero di nuovo, e di nuovo si rivolse all'Austria, che finalmente decise di considerarla parte dei suoi domini e di assicurarle protezione; ma quale protezione! Fino al regno di Massimiliano, Trieste rimase tributaria di Venezia, e fino al 1717 la sua navigazione rimase soggetta alle esazioni della repubblica imperiosa. Carlo VI la liberò da questo vassallaggio commerciale. Maria Teresa le diede utili istituzioni. Da questi due regni inizia il suo primo elemento di progresso; dagli eventi del secolo scorso risale la sua prosperità. Le altre città dell'Adriatico, le coste della Dalmazia, erano state dominate, soggiogate da Venezia sotto il segno di San Marco; avevano gradualmente perso il loro ardore primitivo; la loro vitalità era rimasta solo in ciò che il Senato delle lagune voleva lasciare loro per il proprio interesse. A sua volta, Venezia cedeva sotto la spada della Francia, e, in una di quelle virate così frequenti nella storia dei popoli, nella storia delle città, Trieste doveva raccogliere la fortuna commerciale della fiorente repubblica di cui aveva a lungo, con dolore, subito il giogo.

Già nel 1717, Carlo VI, colpito dalla posizione vantaggiosa di Trieste al bordo di un ampio golfo, al centro dell'Adriatico, ai piedi delle Alpi germaniche, aveva pensato di creare lì una grande città marittima. Vi fece tracciare strade, vi chiamò coloni, sponsorizzò una compagnia che si proponeva di costruire a Trieste splendide navi e navigare su tutti i mari. Nel 1809, Trieste vide aprirsi davanti a sé un'altra prospettiva: Napoleone, prendendo possesso della città, intendeva farne la capitale di un nuovo regno composto da Illyria, Dalmazia e dalle province turche di Bosnia, Erzegovina e dalle tribù bellicose del Montenegro. La compagnia orientale privilegiata da Carlo VI fallì nei suoi progetti. La campagna del 1812 e del 1813 rovesciò i piani di Napoleone. A seguito di questi due imperatori, è sorta una semplice società commerciale che ha posto Trieste sulla sua vera via e ne ha fatto la fortuna. Parliamo del Lloyd. Formato dalla fusione di diverse compagnie assicurative, il prudente Lloyd non si è lanciato subito in colossali combinazioni come la compagnia orientale di Carlo VI. Ha fatto solo saggi prudenti, e man mano che i suoi tentativi riuscivano, ha ampliato il suo raggio d'azione, ha aperto nuove rotte. Ha costruito altre navi. Nel 1838 aveva solo dieci navi a vapore; ne ha ora cinquanta che percorrono regolarmente l'Adriatico e il Mediterraneo. Ha preso in mano la direzione di una vasta navigazione dal Danubio al Mar Nero, dal Po e dall'Adige alle rive del Nilo.

Come il governo di uno stato, si suddivide in vari dipartimenti. Il primo continua il lavoro delle assicurazioni che è stata la base di questa corporazione. Il secondo si occupa del servizio delle navi a vapore. È il dipartimento della marina. Ha le sue costruzioni, i suoi arsenali, i suoi ufficiali e i suoi marinai, regola il movimento delle vecchie linee e ne organizza di nuove.

Il terzo rappresenta in questa associazione il ministero dell'istruzione pubblica e degli affari esteri. Ha agenti a pagamento in vari punti che gli trasmettono notizie politiche, commerciali, industriali che possono influenzare in qualche modo la borsa, e queste notizie, di proprietà della corporation di Lloyd, vengono pubblicate ogni giorno liberamente in una sala lettura. Ha anche fondato una tipografia e un laboratorio di incisione. Scrive due grandi giornali quotidiani, un foglio settimanale e due raccolte mensili, una in italiano e l'altra in tedesco, in stile Magasin pittoresque. Per attirare a sé gli scrittori delle due nazioni, ogni anno bandisce un concorso letterario e pubblica nelle sue raccolte quella che ha vinto il premio.

L'attività di questa intelligente corporazione, di cui il signor de Bruck è stato direttore per diversi anni, ha dato l'impulso agli altri commercianti di Trieste, e negli ultimi anni questa città ha preso un posto di rilievo tra le grandi piazze commerciali d'Europa.

Ai tempi di Carlo VI, non contava più di 5000 abitanti. Includendo la popolazione rurale che le appartiene per vicinanza, ne conta oggi più di 80.000. Le franchigie del suo porto portano derrate e navi di tutte le nazioni, e quando la ferrovia che la collegherà a Vienna, la difficile ferrovia che attraversa le rocce del Semmering, sarà completata, Trieste diventerà un punto di giunzione di primo ordine tra la Germania, l'Oriente e l'Italia.

Come tutte le città che hanno dovuto temere le invasioni dei barbari e sostenere le lotte tempestose del Medioevo, l'antica città di Trieste era originariamente situata su una collina. Lì sorge oggi la sua fortezza, costruita all'inizio del XVI secolo; là sorge ancora la sua antica cattedrale di San Giusto, notevole per il suo stile austero. Gradualmente, con l'avanzare del tempo e con la sicurezza che le dava un diverso regime sociale, la popolazione triestina scese dalle sue altezze primitive nel bacino che si apre tra le colline di San Michele e gli scogli del Gante. Lì si estende ora la nuova città, una grande città magnificamente costruita, con strade intere lastricate con ampi ciottoli, come i nostri più bei marciapiedi prima dell'invenzione dell'asfalto; chiese aperte liberamente ai culti cattolico, protestante, greco, armeno, ebraico; edifici giganteschi, tra cui la Borsa, il Tergesteinn, dove si trovano gli uffici del Lloyd, il palazzo del governatore e l'hotel nazionale.

In generale, le lettere non fioriscono molto nel terreno delle città industriali, e sotto questo aspetto Trieste non merita l'onore di un'eccezione. La stampa fu introdotta in questa città nel 1624. Finora, che noi sappiamo, non ha prodotto nessun'opera essenziale, e le migliori pubblicazioni di Trieste sono state recentemente fatte negli stabilimenti del Lloyd.

Tuttavia, oltre al vasto circolo del Tergesteinn, per il quale ogni commerciante paga un contributo annuale, ci sono una dozzina di circoli privati dove, con una semplice raccomandazione, gli stranieri vengono ammessi gratuitamente con la più cortese urbanità, dove si ricevono le migliori riviste, i principali giornali di tutto il mondo, dove si trova anche una collezione nascente di buoni libri.

Trieste ha infine una biblioteca pubblica aperta ogni giorno, arricchita da diverse rarità da un uomo che, in mezzo ai suoi concittadini laboriosi, ha dedicato la sua vita e la sua fortuna alla coltivazione delle lettere e delle scienze. Era il dottor Rosetti, il cui nome in questa città è giustamente onorato. Ha eretto sulla piazza della cattedrale un monumento a Winckelmann, il celebre archeologo assassinato a Trieste da un italiano; ha creato attorno a questo monumento un Museo delle antichità. Nel corso della sua vita, si è dedicato a raccogliere tutto ciò che riguardava il papa Enea Silvio, che fu vescovo di Trieste per alcuni anni. Ha formato la più completa collezione esistente delle poesie di Petrarca e delle sue traduzioni (730 opere), e alla sua morte queste preziose collezioni sono state donate alla biblioteca.

Coloro che amano studiare, nel corso di un viaggio, i monumenti dell'antichità o l'architettura poetica del Medioevo, sperimentano una delle dolci gioie della mente su diversi punti dell'Adriatico. A Ragusa, ameranno vedere l'imponente Corso che termina nella vecchia residenza dei duchi di questa città, che fu una così nobile repubblica; a Spalato, le proporzioni sorprendenti, gli archi e le colonne gigantesche del palazzo di Diocleziano; a Zara, le piccole strade illuminate da combattimenti eroici; a Pola, i grandiosi contorni dell'anfiteatro romano, il più bello che esista; a Venezia, l'indicibile magia della Piazza San Marco, la cattedrale, i palazzi, i canali, i più bei dipinti di Tintoretto e Tiziano, le più deliziose fantasie dell'architetto, dello scultore, del mosaicista.

A Trieste, non ci si deve aspettare tali incanti; Trieste è la città commerciale, industriale, positiva, nel mezzo di queste città illustrate dalla poesia dell'arte e la poesia delle tradizioni; Trieste è il banco di questi commerci. Felice è la sua fortuna; felici anche la maggior parte dei suoi edifici, a parte la sua cattedrale di San Giusto, che sorge sulla sua collina come un monumento della sua storia primitiva, i suoi edifici pubblici sono stati recentemente costruiti e sono più notevoli per la larghezza delle loro dimensioni che per l'eleganza della loro struttura.

Vicino al molo che i triestini devono all'attenta sollecitudine di Maria Teresa, si erge l'immensa struttura quadrangolare a cui è stato dato l'antico nome di Trieste: Tergesteum, e che è in gran parte occupata dagli uffici e dalle sale di lettura del Lloyd. Vicino a questo, sui contorni di una piazza irregolare, c'è il teatro costruito da Selva, l'architetto della Fenice di Venezia, decorato all'esterno da Mattia Pertsch. Ha un aspetto piuttosto ridente e può contenere 1300 persone. Nello stesso quartiere si trova il palazzo del governatore, che assomiglia a una caserma, e la Borsa, costruita nel 1802 in stile dorico, decorata all'esterno con colonne corinzie, statue di marmo, e all'interno con alcune affreschi di Bisson raffiguranti episodi della storia di Trieste. In questa piazza si erge una colonna di marmo, sulla cui cima è posta una statua di un imperatore vestito con il mantello cerimoniale, reggente uno scettro e un globo. È la statua di Leopoldo V, che nonostante la sua natura poco bellicosa, dovette affrontare numerose guerre, discendente di Carlo V che fuggì nel 1683 davanti ai Turchi, ma trovò difesa per i suoi stati in personaggi come Montecuculli, Sobieski e il principe Eugenio. Nel 1660, Leopoldo fece visita al conte di Duino, che aveva sposato una Gonzaga, imparentata con la famiglia imperiale, e allo stesso tempo entrò a Trieste. La memoria di questo evento memorabile ispirò la creazione di questa colonna e la modellazione di questa statua.

Nella piazza chiamata Piazza Maggiore, altrettanto irregolare quanto quella della Borsa ma molto animata dal piccolo commercio, si trova un'altra statua di marmo, legata a un sentimento di riconoscenza: quella di Carlo VI, che scese dalle cime del Carso a Trieste nel 1728, non per fare una vana parata, ma per vedere con i suoi occhi lo stato dei lavori utili che aveva ordinato e per fissare il suo ricordo attraverso diverse nobili istituzioni.

I triestini amano gli edifici imponenti; sembra che li costruiscano come caravanserragli per accogliere tutti i viaggiatori e come magazzini per immagazzinare tutte le merci che le loro navi depositano ogni giorno sui moli. L'hotel nazionale, situato di fronte al porto, è uno di questi giganteschi hotel di cui bisogna cercare il modello su Broadway a New York. Un commerciante si è appena costruito, lungo il grande canale, una casa che un sovrano potrebbe facilmente considerare come il suo palazzo.

Di fronte a queste masse colossali di pietra che indicano solo una enorme spesa di fiorini, più di un turista volgerà lo sguardo con pensieri sognanti verso alcuni di questi padiglioni estivi sparsi sulle colline, ombreggiati da rami di viti; le loro porte si aprono su un giardino la cui vegetazione viene appena appannata da un inverno rapido, e dalla terrazza che li circonda si ha di fronte, in ogni momento, ai primi raggi dell'alba, alla fervente luce del giorno, alle luci malinconiche della sera, lo spettacolo del mare nella sua incessante varietà di ombre e luci, nel suo sonno placido e nelle sue pulsazioni, nel suo sorriso e nei suoi temporali, nel suo incanto infinito che conoscono solo coloro che sono stati a lungo cullati sul suo seno o trascinati nelle sue tempeste.

Traduzione di un articolo francese pubblicato nel 1854 sulla rivista "Le Magasin Pittoresque", autore sconosciuto. L'article en français

The Cherry Orchard

- Posté en Traces par

On September 26, 1903, Anton P. Chekhov set down his pen, tracing the final words of his famous play, "The Cherry Orchard." One hundred twenty years? It feels like so little! It's hard to believe, the subject and its treatment seem so dated to us, Europeans at least. I can assure you that the words of this play still resonate strongly in other countries, notably in Iran, where Chekhov is among the most performed authors.

But it must be believed that much more has happened in the West than in the East in one hundred twenty years. Anton, who passed away in the following year, would not fully grasp our world. He did not witness his play's performance, although he had worked on it with the troupe. Just like Kafka, who found himself very funny and burst into laughter in the middle of readings of his stories, Chekhov had spoken of a comedy and was looking for a somewhat ridiculous old woman for the lead role, reconsidering his text, which describes a still young and attractive widow.

It was Konstantin Stanislavski, an immense director whose influence still extends worldwide, who found it dramatic and changed its tone. Rightly so, as the end of the old world was, in truth, far from cheerful.

Let's recall the play's subject: Ranevskaya, 35 years old, returns from Paris to the childhood estate of which she is the sole heir. This property is being auctioned off to pay debts. The merchant Lopakhin proposes a rescue plan: demolish the old buildings, cut down all the cherry trees, and build vacation cottages to rent to tourists. Ranevskaya is horrified; her house and garden are filled with sentimental memories. Delaying the decision, the estate's inhabitants philosophize, dance, and spend their last pennies. Lopakhin ultimately wins the auction and immediately orders the orchard to be razed. The indecisive and dreamy nobles depart, making way for "men of action."

The ruin is caused, among other reasons, by the resignation of the ruling classes, their lack of genuine attachment to the country and its people. This recurring phenomenon in Russian history gives the play its modernity, as when 1.2 million Russians fled Putin's war, rejecting all responsibility and risk, offering no resistance to a delusional and blinded power that is leading the country to the abyss.

Engrossed in the weight of the words they exchange in dialogues of rare richness in Russian, the characters seem to downplay the primary cause of their distress: the flight from a Russia too harsh to live in. This reality is barely touched upon: five years before this dreadful auction, Ranevskaya had fled the estate because her young son drowned there. In Paris, she had rebuilt her life, loving a man who sent her telegrams every day, begging her to return. Even if it were not to be sold and dismembered, Ranevskaya would no longer live on her vast estate, which requires administration and maintenance. It's too heavy. Immense Russia also weighs too heavily on the shoulders of the new rich who have chosen the Côte d'Azur, Spain, Georgia... In 1903, Ranevskaya will repatriate the little money she made in France; it will be well received there. We can see that this is nothing new.

In "The Cherry Orchard," we find the same technique as in the masterpieces that came before it: dialogues that aren't really dialogues, with each interlocutor remaining enclosed within themselves. Hence, seemingly random replies and unreflective responses that create a resonant disconnection. The motives driving the characters are left unexpressed - the reader is free to guess why the characters act or fail to act as they do. What Stanislavski would call a "drama" is simultaneously a tragedy and a comedy. This offers an almost unlimited space for interpretation, much like Shakespeare.

The contemporaries of the play refused to see it as a reflection of social reality. The disastrous war of 1904 and the revolution of 1905 would open their eyes. Similarly, they didn't see Russia but its caricature. Ivan Bunin said that no cherry orchard of such magnitude was credible: "... Contrary to what Chekhov claims, there was no cherry orchard anywhere in Russia: there were only parts of gardens, sometimes very large ones, where cherry trees grew, and nowhere could these parts, again contrary to Chekhov, be right next to the master's house, and there was and there is nothing wonderful about these cherry trees, not at all beautiful, as we know, gnarled, with small foliage."

But the Nobel laureate Bunin is seriously mistaken; he must have read or heard it wrong: Chekhov, who hails from the south, knows very well that cherry orchards are not a tradition in Russian estates. In the play, the humble Firs recounts that the dried cherries from the estate were sent by cart to Kharkov and Moscow. Lopakhin regularly travels to Kharkov for business. Varia, the pious adopted daughter, dreams of pilgrimages to holy places, first to Kiev and then to Moscow. Ranevskaya's estate is therefore in "Malorossiya," Little Russia, now called Ukraine... at worst, in the border region of Belgorod, which was then part of Little Russia.

Before the war, when Ukraine had not yet rejected all works written in the Russian language, the Historical and Toponymic Commission of Odessa estimated that "The Cherry Orchard" was based on an inheritance and liquidation case that ended in 1909 but that Chekhov had been able to follow because the owner was among his acquaintances. The said Commission even placed a commemorative plaque on the supposed site! Not far from Odessa.

As the name suggests, Chekhov had Czech origins and cared very little about nationalist quarrels; he would be appalled by the ongoing spectacle.

Réimpresions

- Posté en Traces par

Image sans tain à paroles de ce qui se passe.

enter image description here

Sexual misery 1914

- Posté en Traces par

Violette and Antoine

Renverser l'idole.

- Posté en Traces par

enter image description here C'était un rêve d'italien. mais je ne savais pas encore que je l'étais à moitié. Et ce n'était pas un italianisme humaniste et christianisé du quattrocento civilisé et criminel. Non, c'était un rêve dionysiaque, d'une brutalité antique et païenne. Celle d'un enfant qui n'a pas de langage.
Seulement des cris et des affects d'animal. Et c'est comme un hurlement de montagnard, rauque et rude, une explosion avec son souffle de gorge épuisée déjà, alors que le cri retentit encore. Joie mauvaise de l'assassin qui détrône ce qui lui est le plus cher mais qui déjà l'a tué. Et le meurtre, aussi impulsif qu'un acte instinctif nous entraîne par la seule énergie du corps même qui irradie en une pensée, la seule pensée de ma vie qui a une signification précise que je sais dans l'instant même de son irruption sans le mot qui la nommerait et qui l'aurait fixée dans ma mémoire comme un savoir et non pas pas comme une assomption en enfer. Un sentiment radical, dangereux, subversif assez pour ne pas en avoir peur le reste de ma vie, sans doute jusqu'à la fin. Ma première et unique fête onirique et brutale.

Le crime initial, impardonnable, le contraire du crime mythologique du père. Mais qui est en même temps négation du père même dont on fige dans la minéralité diaphane d'un marbre translucide la statue de l'impuissant.

Et moi, pris dans les rets d'une contradiction fondamentale qui rendait mon enfance malheureuse à cause d'avoir de moi-même dans un éclair de lucidité si précoce, trop précoce même, inventé une idée si claire et sans interprétation possible autre que le plaisir mortifère du renversement de l'idole qui se brise dans sa chute. Et la jouissance qui me prend d'avoir oser ce bris implacable et silencieux comme un secret. Cet assassinat n'était pas un meurtre rituel, mais il me plongeait dès le renversement de l'idole dans le sacré de l'amour même de l'idole détruite, de la distance abolie, du vide qui ne pouvait que laisser la parole le combler. Assassin bien trop prématuré, il en est toujours ainsi des crimes commis dans l'extrême enfance, on n'a pas les mots ni du remord ni de la justification. Et inhibé pour le reste de ses jours des combats, ayant accompli le pire suprême, on ne pense plus qu'à se sauver de l'absence qu'on a provoquée, de ce vide qui s'est élargi en nous-même comme une brèche dans la terre quand elle a tremblé, découvrant un gouffre sans fond, privé de lumière. Un soleil noir qui pourtant darde des rayons pubères. Je suis à jamais hanté par la peur de ce vide laissé sur le piédestal qui supportait la statue basculée de l'idole.

Ce que j'adore, c'est donc le rien. Ce rien que j'ai créé et qui me rend fou de terreur intime. Et si ce rien qui me poursuit était l'acte le plus haut, l'observation-acte qui m'a sorti des rangs des meurtriers, mais comme un criminel, comme cet anarchiste que je ne désavoue pas et qui m'horrifie autant que je m'abhorre, ce frère indigne des hautes œuvres, que je hais sans le rejeter de l'utopie, dont j'ai hérité de la culture libertaire comme d'un fardeau dont on ne peut pas se défaire, ce tueur qui a poignardé hypocritement mais sans pitié, autant que j'en était dénuée absolument dans la volonté de l'accomplissement irréversible du renversement d'un empire, Élisabeth d'Autriche que je ne peux pas m'empêcher d’apprécier parce qu'elle est la victime tellement jolie, très maternelle même reine. Je suis donc dès la prime enfance un double à la manière d'une farce, mais farce néanmoins, de Luigi Lucheni. Farce, tragique pour moi seulement.

Car si c'était un impulsion physique qui m'a poussé, je savais vraiment , avant que l'idole bascule, ce que je faisais et je savais que je voulais le faire et je savais sans user des mots, que j'étais dans la pleine lucidité de l'évidence de l'action pragmatique. Un acte philosophiquement pur, un acte dont la nature insurrectionnelle vaut tous les meurtres réels parce que éminemment symbolique de la figure du pouvoir absolu, totalitaire parce que ce pouvoir est le corps même du monde, un univers qui nous absorbe inéluctablement comme l'attraction d'un trou noir.

Le meurtre onirique de l'idole que j'ai commis en conscience, la seule fois où le contenu manifeste d'un de mes rêve se confond avec son signifiant si chargé du symbole, son évidence incorporée s'était déjà propagée aussi vite que la lumière, dans l'instantanéité même de la formulation du concept, son information était partout dans l'univers, dans la conscience même du très jeune enfant que j'étais et qui n'attendais que cela pour jouer l'acte. Et agir de la seule manière de l'accomplir totalement, de le réaliser effectivement, de lui donner sa valeur de vérité absolue, en rêvant. C'est ainsi que cette action immatérielle, qui s'est joué dans mon esprit, présente avec sa cruelle clarté innocente, tous les aspects d'une vérité aussi pure que la violence pure de l'acte, d'une nudité si voluptueuse et très vénéneuse, si parfait cet acte, si artefact, si profondément humain qu'il scintille comme un zircon, cette pierre trop parfaite, invention humaine, tellement parfaite, qu'elle parait tellement naturelle, plus naturelle que la pierre réellement naturelle dont elle s'inspire, ce diamant imparfait tellement convoité, bien plus que l'action parfaite qui produit le zircon absolument régulier. Aussi le symbole de mon acte dont la nature est indicible même si je peux le décrire, c'est ce caillou industriel et méprisé comme on méprise maintenant l'esthétique logique de la pensée générale.

C'était dans le vieux Vierzon, un jardin derrière la maison petite-bourgeoise, au vague air d'un petit parc d'Italie. Depuis la volée de marche qui dévalait de la maison jusqu'à la terre, au sommet de laquelle je me trouvais, la statue vivante de ma mère était là, tout près, à portée de la poussée de mes bras. Sans hésiter, la reconnaissant au premier regard, je bascule le corps d'albâtre dans le vide. Comme une jouissance silencieuse, un grand cri muet m'a pris, cette fois là, en ma seule joie candide d'avant l'inquiétude.

Trente ans plus tard exactement, le même cri muet me rendait fou dès l'irruption de l'angoisse aussi forte que la sensation provoquée par la mort infligée à l'idole.

Trieste

- Posté en Traces par

TRIESTE,

Le port

C'est l’une des récentes métropoles commerciales de l'Europe, et l’une des plus anciennes cités de l'Adriatique. Elle fut fondée 600 ans avant l'ère chrétienne, par une tribu de Thraces qui, forcée de fuir devant un ennemi puissant, où entraînée par un aventureux désir de migration, remonta le Danube, s'implanta dans l'Ister, et y bâtit plusieurs autres villes, entre autres Pola.

Pola n’est plus aujourd'hui qu'une espèce de bourgade sans importance, remarquable seulement par ses antiquités romaines, et Trieste fait chaque jour de nouveaux progrès. Mais que de temps elle a langui, que de luttes désastreuses elle a souffertes, avant d'en venir à prendre son vigoureux essor, avant de recueillir l'héritage maritime de Venise !

Vers l'année 189 avant Jésus-Christ , elle est prise par les Romains, qui y placent une colonie trop faible pour la défendre. Elle est successivement saccagée par les Gépides par les Goths, par les Lombards. Relevée une première fois de ses ruines par Octave Anguste, une autre fois par les Byzantins, elle est incorporée dans l'exarchat de Ravenne, conquise par Charlemagne, livrée au duc de Frioul, et enfin subjuguée par les Vénitiens. En même temps, les patriarches d'Aqnilée, les margraves d'Istrie , les ducs de Carinthie, se disputent sa possession.

Attaquée tour à tour par ses ambilieux voisins, prise et et reprise par l'un et par l'autre, et, chaque fois qu'elle succombe, condamnée à payer elle-même les frais de la guerre, la malheureuse ville, pour en finir de ces falales rivalités, se résout à s'imposer elle-même un autre maître : elle invoque l'appui de l'Empire germanique, et se donne volontairement à Charles IV, lequel la remet galamment à son frère, patriarche d'Aquilée. Les Vénitiens l’envahissent de nouveau, et de nouveau elle en appelle à l'Autriche, qui veut bien enfin Ia compter dans ses domaines et lui assurer sa protection ; mais quelle protection ! Jusqu'au règne de Maximilien , Trieste reste tributaire de Venise, et jusqu'en 1717 sa navigation reste soumise aux exactions de l'impérieuse république, Charles VI l'affranchit de ce vasselage commercial. Marie-Thérèse lui donne d'utiles institutions. De ces deux règnes date son premier élément de progrès ; des événements du siècle dernier date sa prospérité. Les autres villes de l'Adriatique, les rives de la Dalmatie, avaient été maîtrisées, asservies par Venise sous la griffe de saint Marc ; elles avaient peu à peu perdu leur ardeur primitive ; il ne leur restait de vitalité que ce qu'il plaisait au sénat des lagunes de leur en laisser dans son propre intérêt. À son tour Venise succombait sous l'épée de la France, et, par une de ces virissitudes si fréquentes dans l'histoire des peuples, dans l'histoire des villes, Trieste devait recueillir la fortune commerciale de la fière république dont elle avait longtemps, avec douleur, subi le joug.

Déjà, en 1717, Charles VI, frappé de la situation avantageuse de Trieste au bord d'un large golfe, au centre de l'adriatique, au pied des Alpes germaniques, vait pensé à créer là une grande cité maritime. Il y fit tracer des rues, il y appela les colons,il patronna une compagnie qui se proposait de construire à Trieste de splendides navires et de naviguer sur toutes les mers. En 1809, Trieste vit s'ouvrir devant elle une autre perspective, Napoléon, en prenant possession de cette ville se proposait d'en faire la capitale d'un nouveau royaume composée de l'Illyrie, de la Dalmatie auxquelles il aurait été adjointles provinces turques de la Bosnie, de l'Herzégovine et les tribus belliqueuses du Monténégro. La compagnie orientale privilégiée par Charles VI échoua dans ses entreprises. La campagne de 1812 et 1813 renversa les projets de Napoléon. À la suite de ces deux empereurs, on a vu surgir une simple société de commerce qui a mis Trieste dans sa véritable voie et lui a fait sa fortune, Nous voulons parler du Lloyd. Formé de la réunion de plusieurs compagnies d'assurances, le prudent Lloyd ne s’est point de prime abord lancé dans de colossales combinaisons comme la compagnie orientale de Charles VI. Il n’a fait que de sages essais, et à mesure que ses tentatives réussissaient, il agrandissait son cercle d'action, il s'ouvrait de nouvelles routes, Il construisait d’autres bâtiments. En 1838, il n'avait encore que dix bateaux à vapeur ; il en a maintenant cinquante qui parcourent régulièrement l’Adriatique, la Méditerranée. Il a pris entre ses mains la direction d'une immense navigation depuis le Danube jusqu'à la mer Noire, depuis le Pô et l’Adige jusqu'aux rives du Nil.

Comme le gouvernement d'un état, il se divise en plusieurs départements. Le premier continue le travail des assurances qui fut la base de cette corporation. Le second est chargé du service des bateaux à vapeur. C'est le département de la marine, Il a ses constructions, ses arsenaux, ses officiers et ses matelots, règle le mouvement des anciennes lignes et en organise de nouvelles.

Le troisième représente dans cette association le ministère de l'instruction publique et celui des affaires étrangères. Il a aux différents points des agents à sa solde qui lui transmettent les nouvelles politiques, commerciales, industrielles, qui peuvent d'une façon où de l’autre avoir quelque influence à la bourse, et ces nouvelles, qui lui appartiennent, la corporation de Lloyd les fait chaque jour libéralement afficher dans un salon de lecture. Elle a de plus fondé une imprimerie et un atelier de gravure. Elle écrit deux grands journaux quotidiens, une feuille hebdomadaire, et deux recueils mensuels, l'un en italien, l'autre en allemand, dans le genre du Magasin pittoresque. Pour attirer à elle les écrivains des deux nations, chaque année elle met au concours quelque œuvre littéraire, et insère dans ses recueils celle qui a remporté le prix.

L'activité de cette intelligente corporation, dont M. de Bruck a été pendant plusieurs années le directeur, a donné l'impulsion aux autres négociants de Trieste, et, dans les dernières années, cette ville a pris une place notable entre les grandes places commerciales de l'Europe.

Au temps de Charles VI, elle ne renfermait pas plus de 5000 habitants. En y comprenant la population rurale, qui lui appartient par son voisinage immédiat, elle en compte aujourd'hui plus de 80 000. Les franchises de son port y aménent les denrées, les bâtiments de toute les nations, et quand le chemin de fer qui doit la relier à Vienne, le difficile chemin de fer qui traverse les rocs du Semmering, sera complétement achevé, Trieste deviendra un point de jonction, et de premier ordre, entre l'Allemagne, le Levant et l'Italie.

Comme toutes les villes qui ont eu ä redouter les invasions des barbares et à soutenir les luttes orageuses du Moyen-Âge, l'ancienne cité de Trieste fut d'abord étagée sur une colline. Là s'élève, aujourd’hui, sa forteresse, construite au commencement du seizième siècle; là s'élève encore sa vieille cathédrale de Saint-Just, remarquable par son style austère. Peu à peu, avec les progrès du temps, avec la sécurité que lui donnait un autre régime social, la population triestaine est descendue de ses hauteurs primitives dans le bassin qui s'ouvre entre les coteaux de Saint-Michel et les escarpements du Gant. Là s'étale à présent la nouvelle ville, une grande ville magnifiquement bâtie, des rues tout entières pavées en larges dalles, comme nos plus beaux trottoirs avant l'invention de l'asphalte ; des églises ouvertes librement aux cultes catholique, protestant, grec, arménien, hébraïque ; des édifices gigantesques, entre autres la Bourse, le Tergesteinn, où sont les bureaux du Lloyd, le palais du gouverneur et l'hôtel national.

En général, les lettres ne fleurissent guère sur le terrain des cités industrielles, et sous ce rapport Trieste ne mérite point l'honneur d'une. exception. L'imprimerie fut introduite dans cette ville en 1624. Elle n'y a, que nous sachions, pas produit depuis une œuvre essentielle, et les meilleures publications de Trieste sont celles qui ont été récemment faites par les ateliers du Lloyd.

Cependant il existe là, outre le vaste cercle du Tergesteinn, pour lequel chaque négociant paye une contribution annuelle, une douzaine de cercles particuliers où, à l’aide d'une simple recommandation, l'étranger est admis gratuitement avec la plus gracieuse urbanité, où l'on reçoit les meilleures revues, les principaux journaux du monde entier, où l'on trouve aussi une collection naissante de bons livres.

Trieste possède enfin une bibliothèque publique ouverte chaque jour, enrichie de plusieurs raretés par un homme qui, au milieu de ses industrieux concitoyens, consacra sa vie, sa fortune à la culture des lettres et des sciences. C'était M. le docteur Rosetti, dont le nom dans ectte ville est justement honoré, Il a érigé sur la place de la cathédrale un monument à Winckelmann, le célèbre archéologue, qui fut assassiné à Trieste par un italien ; il a formé autour de ce monument un Musée d'antiquités. Il s’appliqua, dans le cours de sa vie, à recueillir tout ce qui avait rapport au pape Æneas Silvius, qui fut pendant quelques années évêque de Trieste. Il forma la plus parfaite collection qui existe des poésies de Pétrarque et de ses traductions (730 ouvrages), et en mourant ces précieuses collections à la bibliothèque

Ceux qui aiment à étudier, dans le cours d'un voyage, les monuments de l'antiquité où la poétique architecture du moyen âge, éprouveront une des douces jouissances de leur esprit sur plusieurs points de l'Adriatique. À Raguse, ils aimeront à voir l'imposant Corso se terminant à l’ancienne résidence des ducs de celte ville, qui fut une si noble république ; à Spalato, les proportions étonnantes , les arceaux et les colonnes gigantesques du palais de Dioclé- tien; à Zara, les petites rues illustrées par des combats héroïques; à Pola, les grandioses contours de l'amphithéâtre romain, le plus beau qui existe; à Venise, l'indicible féerie de la place Saint-Marc, la cathédrale, des palais, des canaux , les plus belles toiles du Tintoret et du Titien, les plus délicieuses fantaisies de l'architecte, du sculpteur , du mosaïste. À Trieste, il ne faut point s'attendre à de tels enchantements ; Trieste est la cité commerciale, imdustrielle, positive, au milieu de ces villes illustrées par la poésie de l’art et la poésie des traditions; Trieste est le comptoir au milieu de ces traditions. Riante est sa fortune; riantes aussi la plupart de ses constructions à part sa cathédrale de Saint-Just, qui s'élève sur sa colline comme un monument de sa primitive histoire, ses édifices publics ont été nouvellement bâtis, et sont plus remarquables par la largeur de leurs dimensions que par l'élégance de leur structure.

Près du môle que les Triestains doivent à l'intelligente sollicitude de Marie-Thérèse, s'élève l'immense bâtiment quadrangulaire auquel on a donné le nom antique de Trieste : Tergesteum , et qui est en grande partie occupé par les bureaux et les salles de lecture du Loyd. Prés de là, sur les contours d'une place irrégulière, est le théâtre construit par Selva, l'architecte de la Fenice de Venise, décoré à l'extérieur par Matthieu Pertseh. Il est d'un aspect assez riant, et peut contenir 1300 personnes. Dans le même quartier est le palais du gouverneur, qui ressemble à une caserne, et la Bourse, construite en 1802, dans le style dorique, ornée au dehors de colonnes corinthiennes, de statues en marbre, et à l'intérieur de quelques fresques de Bisson, représentant des épisodes de l’histoire de Trieste. Sur cette place est une colonne en marbre, au haut de laquelle est posée une statue d'un empereur revêtu du manteau d’apparat, portant entre ses mains le sceptre et le globe. C'est la statue de Léopold fe, qui était d'une nature si peu belliqueuse et qui eut à soutenir tant de guerres, de ce descendant de Charles-Quint qui fuyait, en 1683, devant les Turcs, mais qui trouva pour défendre ses Etats un Montecuculli, un Sobieski, un prince Eugène. En 1660, Léopold vint faire une visite au comte de Duino, qui avait épousé une Gonzague, alliée à la famille impériale et par la même occasion entra à Trieste. La mémoire de ce mémorable événement fit tailler cette colonne et modeler celte statue.

Sur la place qu'on appelle la piazza Maggiore (la Grande place), non moins irrégulière que celle de la Bourse, mais très-animée par le petit commerce, est une autre statue en marbre, à laquelle se rattache une juste pensée de reconnaissance : c’est celle de Charles VI, qui, des cimes du Karst, descendit aussi à Trieste en 1728, non point pour y faire une vaine parade, mais pour voir par ses propres yeux où en étaient les utiles travaux qu'il avait ordonnés, et pour y fixer son souvenir par plusieurs nobles institutions.

Les Triestains ont l'amour des vastes édifices ; on dirait qu'ils les bâtissent comme des caravansérails pour y recevoir tous les voyageurs, et comme des docks pour y faire entrer toutes les denrées que leurs navires déposent chaque jour sur leurs quais. L'hôtel national, situé en face du port, est l'un de ces gigantesques hôtels dont il faut aller chercher le modèle sur le Bradway de New-York. Un négociant vient de se construire, au bord du grand canal, une maison dont un souverain ferait aisément son palais.

De ces masses colossales de pierres qui n’accusent qu'une énorme émission de florins , plus d’un touriste tournera, avec une rêveuse pensée, ses regards vers quelques-uns de ces pavillons d'été étagés sur les collines, ombragés par des rameaux de vignes; leur porte s'ouvre sur un jardin dont un rapide hiver ternit à peine la verdure, et, de la terrasse qui les entoure, on a devant soi, à toute heure, aux premiers rayons de l'aube, à l'ardente clarté du jour, aux lueurs mélancoliques du soir, le spectacle de la mer dans son incessante variété d'ombre et de lumière, dans son placide sommeil et ses palpitations, dans son sourire et ses orages, dans son charme infini que connaissent ceux-là seulement qu'elle a longtemps bercés sur son sein où entraînés dans ses tempêtes.

Article paru dans Le Magasin Pittoresque en 1854. Auteur inconnu.
L'article traduit en italien