Îles

Correspondances et cartes

Impressions.

Le surréel de nos sensations, instantané en paroles.

Metafora dell corpo Altro

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La caduta.

In questo momento, l'amore non è più in discussione.  

Rimane solo un'onnipresenza, qui e altrove, come un desiderio che si proibisce quando prende una forma precisa e si chiama "l'altro". L'altro, essere di linguaggio, di parole, e le sue censure inquietanti, dalle quali ci guardiamo per paura di comprendere segreti.

La vicinanza dei loro corpi, non preparati, i loro profumi naturali, le loro acconciature semplici che impediscono ai capelli di coprire il viso, i loro gesti, la parziale scomparsa delle loro curve femminili, i loro sguardi su se stesse.

In prossimità dei loro corpi, non c'è spazio per una sposa, sono anch'esse single, in cerca di qualcosa, piuttosto vago e, soprattutto, persistente, come se fosse saldamente ancorato nella psiche.

Così, nella distanza che si è ridotta a quasi nulla, si apre un abisso estremo, l'impossibilità di mantenere qualsiasi coerenza di sé, se, all'improvviso, questo vuoto a malapena sopportabile, questa cesura inesorabile si dissolvesse in abbracci aberranti che farebbero perdere coloro che si abbracciano, ognuno nei propri affetti primordiali che godrebbero o rigetterebbero con il terrore che l'esperienza quasi pura delle sensazioni senza significati comporta.

Il colpo sarebbe così brutale e rapido da non lasciare spazio a un solo pensiero, le emozioni travolgerebbero tutto, compreso il più piccolo segno, il minimo denominatore possibile.

Anche gli oggetti dei loro corpi, per quanto io li rinominassi, l'enumerazione non è altro che un elenco di sinecdoche della loro totalità ridotta a un'immagine: un seno, una mano, una caviglia, un gluteo ben tornito o il loro pube prominente, le loro labbra, purpuree o d'avorio, contornate, il cui continuo e dolce sussurro del loro respiro sento.

Dal momento che non lo chiedono, ma probabilmente lo preferiscono, distolgo lo sguardo dai loro sguardi, altrimenti, imbarazzate, rimarrebbero in se stesse, vietate di essere altro che un esemplare in un'immagine del femminile.

E il pesante e lento rifiuto di loro stesse, costrette da una visione maliziosa e falsamente chiara come una evidenza della loro natura femminile, valutabile senza il loro consenso. A meno che non si ritirino o si espongano per "niente" o per "nessuno", come uno spreco della rappresentazione sterile di sé stesse, di cui sono le virtuose performative. Almeno alcune di loro.

Quando nessuno le guarda, anche se rimangono indifferenti a essere viste, non sono mai veramente sole in se stesse, esseri singolari, unici, che si sono fatti da sole e procedono dal proprio lavoro su se stesse?

Ho la sensazione, come mi accade anche nella mia solitudine, che un fantasma perseguiti il mio io, che anche loro abbiano questo coinvolgimento con un'immagine particolare, questa immagine materna, un'illusione invisibile, un'oscura idolo con ornamenti violenti come veli penetrabili, con ornamenti vistosi e vaghi, con la luminosità di lame laceranti e con movimenti insidiosi che isterizzano le nostre trance depersonalizzanti.

A questo punto, dove la perdizione sembra certa e si potrebbe concludere con una rottura brutalmente umiliante, che trasformerebbe la stretta ma abissale fenditura che a malapena ci separava in un'infinità modesta ma definitivamente discriminante, l'intoccabile potrebbe diventare il rinnegato rimandato ai propri feticci; tuttavia, potrebbe accadere qualcos'altro, in modo diverso da quei gesti attentamente pesati al di sotto del linguaggio e neganti del pensiero.

Nonostante le censure personali, plasmate senza che noi lo sappiamo, gli atti, come uno scambio corporeo, scambiano parole, frasi con parole disposte in un ordine particolare che ci è proprio. Le nostre reciproche disincarn

azioni caricano le nostre parole di svolte carnali impronte come ferite cuneiformi in noi stessi malleabili e privi di una forma ben definita.

I riferimenti nelle loro frasi sono così impliciti che, secondo le loro strane fantasie, assomigliano a tessuti fatti di nodi multicolori e vari, le loro idee così acute, decifrabili, forse, se mi dimenticassi completamente e leggessi costantemente le loro decorazioni verbali. La mia lettura e le loro scritture sono della stessa sostanza del pensiero.

E l'analogia è operativa, eliminando la vertigine o accentuandola al punto da non avere più paura di cadere mortalmente.

Metaphor of the body Other

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The fall

At this juncture, love is no longer the subject.  

Only an omnipresence, here and elsewhere, like a desire that self-forbids when the other takes on a precise form and is named. The other, a being of language, of speech, and its troubling censures we guard against for fear of understanding secrets.

The proximity of their unadorned bodies, their natural scents, their simple hairstyles that prevent their hair from obscuring their faces, their gestures, the partial fading of their feminine curves, their gazes upon themselves.

In the proximity of their bodies, there is no bride to be found, themselves single, in search of something, rather vague and, above all, tenacious, as if firmly anchored in the psyche.

So, in the distance that has reduced to almost nothing, an extreme abyss is opened, the impossibility of maintaining any self-coherence, if, all at once, this barely bearable void, this unyielding rupture, were to dissolve into aberrant embraces that would lose those embraced, each in their primal affections that they would savor or recoil from with the terror that the almost pure experience of sensations without meanings instills.

So brutal and swift would be the impact that it would not leave time for a single thought, emotions surging, overwhelming everything, including the slightest sign, the smallest possible denominator.

Even the objects of their bodies, no matter how I rename them, the enumeration is merely a list of synecdoches of their entirety reduced to an image: a breast, a hand, the ankle, a shapely buttock, or their prominent pubis, their lips, purplish or ivory, outlined, whose continuous and gentle rustling of their breath I hear.

Since they don't request it, but probably prefer it, I avert my eyes from their gazes, otherwise, embarrassed, they would remain within themselves, forbidden to be anything other than a specimen in an imagery of the feminine.

And the heavy and slow disavowal of themselves by themselves, constrained by a mischievous and falsely clear vision like an obviousness of their female nature, assessable without their consent. Unless they withdraw or expose themselves for "nothing" and to "no one," like a waste of the sterile representation of themselves, of which they are the performative virtuosos. At least some of them.

When nobody is looking at them, even if they remain indifferent to being seen, are they never truly alone within themselves, a singular, unique being who has fashioned itself and proceeds from their own work on themselves?

I have the feeling, as it often happens in my solitude, that a fantasy haunts my self, that they also have this involvement with a particular image, this mother-image, an invisible hallucination, a dark idol with violent adornments like penetrable veils, with flashy and vague ornaments, with the brilliance of lacerating blades, and whose insidious movements hysterize our depersonalizing trances.

At this point where perdition seems certain and one could conclude with a brutally humiliating rupture, which would transform the narrow but abyssal fissure that barely separated us into a modest yet definitively discriminating infinity, the untouchable might become the outcast sent back to their fetishes; however, something else may happen, differently from those carefully weighted gestures beneath language and negating of thoughts.

Despite the personal censures, shaped without our knowledge, acts like a bodily trade, exchanging words, sentences with words arranged in a particular order that is specific to us. Our mutual disembodiments load our words with carnal turns imprinted like cuneiform wounds in our malleable and notably formless selves.

The references in their sentences are so implicit that, according to their strange fancies, they resemble weavings made of multicolored and varied knots, their sharp ideas, decipherable, perhaps, if I forget myself completely and read, constantly read their verbal adornments. My reading and their writings are of the same substance of thought.

And the analogy is operative, eliminating vertigo or accentuating it to the point of no longer being afraid of falling mortally.

English translation of the text -> Métaphore du corps autre.

À la fin...

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Penthésilée, à la fin... enter image description here

C'est vrai, j'adore les autres « mondes ». Au risque qu'on me croit « exote » Suis-je en visite ? Peut-être. Je ne sais pas. J'ai l'impression grandiloquente de reproduire ce qu'a fait en son temps Jack London, côtoyer.

Au début, les regards sur moi étaient durs, réprobateurs. Indifférents, ensuite. Je ne mouftais pas, serré dans un coin. La tête baissé, l'air vague, en moi-même, faisant le vide dans ma pensée, délaissant les mots, ne dénommant plus les sensations, ignorant les stimuli anamnestiques. Aux confins de la langue, attouché au réel.

j'appelais çà, aller à Tarsis. Le vertige du vide, ce gouffre affolant qui me sépare de l'autre. Qu'importe si je ne suis d'aucun monde ? Errant aux marges, j'ai l'impression d'éprouver les liens que tissent les autres entre eux, en forte tension et vulnérable, délié.

L'ivresse de l'attache, et la peur qu'elle se rompe pour un bannissement ? Pour quelle reconnaissance ? Comme si ce qui importait, ce n'était pas tant son appartenance à ce monde que la place qu'on y occupe comme une forme d'authenticité, de réelle permanence d'y être toujours reconnu, d'en être.

Quoi qu'il arrive et, même si, pour une raison malheureuse, il advenait qu'on s'en écarte, on resterait quand même relié à ce monde.

je suis là parce que, peut-être, ce monde n'est pas hors de la cité. Suburbain, îlot de sociabilité obscure, discret au cœur des centres où tous convergent pendant les nuits, ce monde là est celui d'une préférence au delà même des désirs.
Passages.

Ce n'est pas tant que cet état serait de nature. Non, ce qui est le plus terrible, c'est que sa culture est si ésotérique. Elle se fonde sur l'ascèse effrayante de l'oblation qui est découverte du manque de l'autre et qui met tant de temps à apparaître comme une évidence.

Longtemps, on doit être dans le voisinage de l'autre sans le savoir vraiment. Même si, quand on a l'impression de comprendre, enfin, on pense qu'on l'avait su depuis toujours sans se l'avouer vraiment.

Au début, pourtant, il y avait l'innocence et l'inquiétude.
Et à la fin comment sera-ce ?
Amertume et solitude ?
Désillusion et solitude ?
Apaisement et solitude ?
Amour perdu et solitude ?
L'appartenance à ces mondes décalés, codés, comme de toujours, semble intangible et, pourtant, tout paraît si fragile. Ce qui est de plus mille ans pourrait disparaître en une nuit écarlate.
Si bien que ceux qui raconteraient ce qui fut, on croira que c'est une histoire mythologique.
Penthésilée, à la fin...
Je ne suis pas ce que vous croyez.

Ma Diane

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Ma Diane

Reprint

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One-way word picture of what's happening.

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Métaphore du corps autre.

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La chute

 À ce moment, il n'est plus question d'amour.

Seulement une omniprésence, là et ailleurs, comme un désir qui se proscrit lorsque prend forme précise et se dénomme l'autre. L'autre, être de langage, de parole, et ses censures troublantes dont on se prévient de les élucider par peur de comprendre des secrets.
La proximité de leurs corps à elles, non apprêtés, leurs odeurs naturelles, leurs coiffures simples qui empêchent les cheveux d'encombrer leur visage, leurs gestuelles, l'effacement partiel de quelques rondeurs dans des replis, leurs regards sur elles.

Dans le voisinage de leurs corps, là, il n'est pas de mariée qui tienne, elles aussi, célibataires même, en quête vaguement et pourtant apprêt déjà d'une chose, comme une aspiration chevillée à la psyché.

Alors, dans la distance qui s'est réduite à quasiment rien, un abîme, extrême et si ténu à la fois. est ouvert, l'impossibilité de maintenir la moindre cohérence de soi, si, d'un seul coup, ce vide à peine supportable, cette césure imparable devait se fondre en des étreintes aberrantes et qui perdraient les embrassés, chacun dans leurs affects primordiaux dont ils se délecteraient ou bien se révulseraient avec l'effroi que procure l'expérience quasi pure des sensations sans les significations.

Si brutal et rapide serait le choc qu'il ne laisserait pas le temps d'une seule pensée, les émotions déferlant, submergeraient tout, dont le moindre signe, le plus petit dénominateur possible.

Les parties de leurs corps même, j'ai beau les renommer, l'énumération n'est qu'une liste de synecdoques de leur entièreté réduite à une image : un sein, une main, la cheville, une fesse callipyge ou leur pubis proéminent, leurs lèvres, purpurines ou d'ivoire, ourlées, dont j'entends le chuintement continu et doux des respirations. Elles ne le demandent pas, mais sans doute, je crois qu'elles préfèrent, je détourne mes yeux de leurs regards, sinon, gênées, elles resteraient en elle-même, interdites d'être autre chose qu'un exemplaire dans un imagier du féminin.
Et le lourd et lent désaveu d'elles par elles-mêmes, contraintes par une vision extérieure, malicieuse et si faussement limpide, comme une évidence de leur nature femelle, évaluable sans qu'elles n'y puissent mais. À moins qu'elles ne se soustraient ou qu'elles ne s'exposent pour « rien » ni à « quiconque » comme un gâchis de la représentation stérile d'elles et dont elles sont les virtuoses performatives. Du moins, certaines.

Quand personne ne les regarde, quand bien même elles restent indifférentes à ce qu'on les aperçoive, ne sont-elles jamais vraiment toutes seules pour elles, être singulier, unique, qui se serait fait par lui et qui procéderait de leur propre travail sur elles ?

J'ai le sentiment, comme il m'arrive aussi bien dans ma solitude qu'un fantasme hante mon self, qu'elles ont aussi cette prise à partie d'une imago particulière, cette mère-image, une hallucination invisible, idole ténébreuse aux parures violentes comme des voiles pénétrables, aux ornements clinquants et imprécis, au brillant de lames lacérantes et dont les mouvements insidieux hystérisent nos transes dépersonnalisantes.

À ce point où la perdition parait certaine et qu'on pourrait conclure par une coupure sauvagement humiliante, qui transformerait l'étroite fissure mais abyssale qui nous séparait à peine, en un infini modeste mais définitivement discriminant, l'in-touchante referait le paria renvoyé à ses fétiches, il se peut, néanmoins, qu'autre chose survienne, différent du rituel convenu de ces gestes lestés soigneusement en dessous du langage et négateurs des pensées.

Malgré les subterfuges si personnels, arrangés sans notre gré, des actes, comme un commerce, mais corporel, échangent du verbe, des phrases dont les mots ont un ordre particulier qui nous est spécifique. Et nos incarnations mutuelles chargent nos paroles des tournures gestuelles imprimées comme des blessures cunéiformes dans notre Moi malléable et sans forme notoire. Les références dans leurs phrases sont très implicites qu'elles rendent, selon leurs étranges fantaisies, comme des sortes de tissages faits de nœud multicolores et variés, leurs idées si aiguës, déchiffrables, peut-être, si je m'oublie absolument et que je lise, lise sans cesse leurs parures en verbe, mots-image. Ma lecture et leur écrits sont de la même matière de la pensée.
Et l'analogie est opératoire qui supprime le vertige ou l'accentue, au point de ne plus avoir peur de chuter mortellement.

Disposé à la perdition.

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J'ai rêvé la nuit dernière. De tubes verticaux, vaguement parallèles, supportaient des chiffons. On aurait dit des fragments de sac de jute au maillage grossier. Ils évoquaient les idéogrammes magiques d'une écriture ancienne et chargée de magie. Et ces barres de métal terne, assemblées en leur armature structurée géométriquement, évoquent, bien après le rêve, l'implacable pouvoir d'un dispositif dont je croyais être l'assembleur naïf qui travaillerait ainsi à son propre malheur.
 Et ce mélange de tubes métalliques et de bouts de tissu informes déploie en moi la mécanique de l'angoisse. Pris à mon propre jeu d'expression, l'automatisme échappe à la logique et je deviens pour ma plus grande frayeur l’haruspice impuissant d'un ouvrage obscur que je ne maîtrise pas.
 Le sentiment de solitude m'étreint tellement que je voudrais que l'affect douloureusement imprécis qui en découle, perde cette inférence inéluctable qui me condamne par mon travail même d'entropie.
 Je suis la cause de cette spirale qui descend dans une in-cohésion à laquelle, pourtant, je m'efforçais d'échapper, mais au sein de laquelle j'ai plongé. Par ma faute. Le goût pervers de la terreur de chuter dans le vide.
 L'angoisse est suffisamment mordante pour que je me sente obligé de transformer la souffrance en libido. Je m'impose de désirer sensuellement ces barres, comme si le sens, incorporé en une figure charnelle, pouvait procurer une sorte de plaisir à s'identifier à la forme ainsi induite par une imagination apeurée.
Et je voudrais tant que cela finisse.
 Je suis si seul qu'il me vient l'obsession d'une compagnie complice. Je me débats dans la complexité et ce que je produis est une forme qui devrait être acceptée comme un ordre dessiné sur la matière même du chaos. Cette matière que je tente désespérément de dire.
 Il y a ces chiffons insignifiants, simples morceaux d'une conscience dispersée. Les mots s'ensuivent et tentent de construire autour du désordre de l'aporie, un sens qui, ne dépendant que de moi, est condamné à la suspicion.
 Qu'au moins, un témoin intraitable et respecté des autres décrive les plaisirs étranges d'être éperdument dans le déchiffrage de sa propre signification.
 Finalement, je ne suis rien. Je veux dire que, même si je désire des étreintes symboliques, je voudrais qu'on ne me marque pas. Je voudrais n'être pas le candide dont on moque l'ignorance des rites inconnus et qui le blessent.
 La figure virile qui fait l'unanimité par la vertu de son apparence masculine, telle qu'elle se décline aujourd'hui, toute image et mouvement, grâce nerveuse du geste technique, vitesse et félinité d'assassin justicier, et qui me côtoierait sans m'anéantir ni même me maudire ou m'exposer à la vindicte.
 On dit que les femmes font parure de la moindre étoffe à leur portée. Alors ces chiffons serrés aux barres, quelle signification autre que celle d'une femme liée à cette structure coercitive et qui serait alors le véritable objet du désir, ou bien, le signifiant incalculable de la métaphore de ma parole encore silencieuse, alors je l'adorerais bien trop tôt avant qu'elle ne se reconnaisse icône.
 Pourquoi dans cette grande salle commune, alors que j'essaie de trouver, pour moi, une place où s'allonger, à demi couchée, dévêtue, mais en partie recouverte d'un drap, elle paraît s'éprendre de moi ? Et pourquoi je suis pris de l'envie d'agir afin de l'attirer contre moi et d'éprouver la maigreur de ses membres ? Si je ne sens pas sa poitrine, ses seins sont tellement menus, ce manque évident du féminin m'attire au point de faire sourdre encore le besoin d'élucider l'inquiétude qui l'étreint. Sa question muette qui est toute dans son regard, je me la pose sans l'énoncer, et le devoir de la résoudre dont je m'affuble, parce que j'interprète ainsi le don d'elle qu'elle paraît me faire, probablement à contrecœur, ne me concerne que parce que j'aurai la force et l'intelligence de son élargissement. Donc, de sa fuite loin de moi, je le redoute. Je la crains autant que je crains la déception de mes extrapolations quand le temps viendra de les confronter à la réalité. J'aurais pensé tout cela en vain. Élaborant une histoire qui ne m'arrangeait pas, mais qui me donnait l'espoir, vague, je n'ose pas formuler ça tout à fait, je crois, d'une acceptation de moi par elle. Pourquoi moi ?
 Quelle est la nature de cet être qui semble s'affecter pour moi tant, que cela me parait étrange. Elle me dit qu'elle est prisonnière d'une institution, mais aussi de ses songes aberrants, et je voudrais lui promettre, mais je ne le fais pas, que, peut-être, j'ai assez de la sagesse de la femme pour la sortir de là.
 Oui, je ne le dis pas, mais qui sait si, par la puissance de mon dire, je l'élargissais de sa contrainte ? Je ne dis rien. Je pense à ce qu'il en est d'elle réellement et des choses m'apparaissent clairement sur elle et qu'elle ne m'a pas dites. Du moins, pas tout de suite, ou, plutôt, que je n'ai pas entendues quand elle me le murmurait et je pensais trop à mon propre malheur et l'incapacité dont j'ai peur de faire preuve au moment de la sortie. On nous arrêterait avant d'avoir franchi le seuil pour me maudire assez afin que je perde toute volonté et tout désir d'être.
 Cette institution supérieure comme une administration qui régit les êtres comme moi parce qu'ils ne savent pas ce qu'ils pourraient bien faire de leur vie.
Qu'est-ce que tu vas devenir ? Ainsi, le professeur de littérature, complice d'aveuglement, s'adressait à moi, en public, devant tous les autres élèves amusés, d'autant plus, que leur sort d'héritiers était déterminé. Du moins, c'est la certitude qu'on m'en avait donné afin que j'approfondisse le malheur de ma perdition déjà décrétée avant que je naisse.
 Quelquefois, je voudrais partir. D'ailleurs, quand je rencontre cette jeune femme, si fille, dans le dortoir improvisé, précaire et public, peuplé de présences humaines insensibles, voire hostiles et qui se démarquent de moi, étranger, qui n'a pas le langage qu'il faudrait pour se faire entendre et acquiescer à leurs avis. Le dortoir de fortune devient alors le lieu d'un périple domestique qui consiste à chercher la place, introuvable d'ailleurs, d'une intimité sécurisée et qui ferait humanité en protégeant les prolégomènes d'une relation. Je suis étranger et elle reste, la jeune femme ambivalente comme mon désir, car je le pressens, je ne suis qu'un possible donateur d'une chose que je ne discerne pas. Et qui serait ce désir de l'autre qui est au-delà de moi et dont je suis presque certain de ne pouvoir le faire surgir d'elle.
 À chaque fois, au plus fort des élaborations compliquées du rêve, au prix d'une peur envahissante, dont l'imprégnation en moi fait qu'elle déborde de l'univers onirique décousu que je forge, sortant de la narration sophistiquée entre l'énigme et l'absurde, fuyant l'apparente logique de ses ressorts forcenés, il ne me reste que cette sensation morbide, irraisonnée : la certitude de mon ébranlement intime.
Alors, que suis-je donc, que faut-il, réduit à quasiment rien, pour exposer, sans fin, ce self défait, friable, ⁣insuffisant ?
Autofiction ?